Fino al primo decennio dello scorso secolo il legislatore italiano ha dedicato scarsa attenzione a quello che viene comunemente definito come il “diritto societario della crisi”[1]. Con questa espressione si fa riferimento a quel segmento dell’ordinamento che comprende un complesso di norme speciali di diritto societario destinate a governare la situazione e il funzionamento delle società che versano in uno stato di crisi e il loro conseguente assoggettamento a procedure di soluzione e composizione della stessa.[2]

IL DIRITTO SOCIETARIO DELLA CRISI: LA CRESCENTE ATTENZIONE DEL LEGISLATORE Fino al primo decennio dello scorso secolo il legislatore italiano ha dedicato scarsa attenzione a quello che viene comunemente definito come il “diritto societario della crisi”[1]. Con questa espressione si fa riferimento a quel segmento dell’ordinamento che comprende un complesso di norme speciali di diritto societario destinate a governare la situazione e il funzionamento delle società che versano in uno stato di crisi e il loro conseguente assoggettamento a procedure di soluzione e composizione della stessa.[2] Nell’esperienza italiana, tale espressione, per quanto abbia origini molto recenti[3] ,è entrata immediatamente nell’uso comune, ma a questa rapida diffusione non è tuttavia corrisposto l’attribuzione di un identico significato. Talvolta è stata utilizzata per indicare l’insieme di quelle particolari regole di diritto societario che sono state introdotte nel quadro delle misure destinate a favorire il superamento della crisi economica globale che dal 2008 ha interessato tutti i settori economici[4]; altre volte in un’ottica meno ampia, l’espressione è stata riferita a quell’insieme di regole che sono il frutto dell’adattamento del diritto societario comune alla situazione di crisi della società[5]. E ancora, c’è chi l’ha intesa come quel complesso di norme di diritto societario che attengono alla governance della società nel momento immediatamente antecedente all’approssimarsi della crisi[6]. D’altro canto, la soluzione preferibile e maggiormente condivisa in dottrina è quella che assegna al sintagma “diritto societario della crisi” un ruolo non meramente descrittivo ma propriamente costruttivo e da intendersi quindi come il complesso delle regole che, con riguardo alla situazione di crisi delle società o al loro assoggettamento a procedure concorsuali o di soluzione della crisi, investano contestualmente profili di diritto societario e profili di diritto concorsuale o se si preferisce, che si pongano come punti intersezione[7] di questi due diritti. Si può affermare insomma, con un’espressione riferibile a Nigro[8], che il tempo in cui il diritto societario e il diritto della crisi rappresentavano “due eserghi sostanzialmente irrelati e reciprocamente indifferenti, è ormai lontano”; che il tempo in cui il legislatore del fallimento dedicava alle società poche, scarne e disorganiche disposizioni per i profili ritenuti differenziali e quindi meritevoli di distinta attenzione, è sostanzialmente finito. Infatti, il quadro che la legge fallimentare del 1942 riservava a questo settore dell’ordinamento era molto scarno. All’esiguo[9] blocco di norme rubricato “Fallimento delle società”[10], dedicato espressamente al fallimento delle società commerciali e che comprendeva disposizioni assolutamente eterogenee fra loro, si aggiungevano poche disposizioni dislocate in modo asistematico nella legge stessa[11]. Altre disposizioni erano contenute in leggi speciali, complementari alla legge fallimentare, come nel caso delle leggi sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese[12] che disciplinavano la materia, di straordinaria importanza, della crisi dei gruppi ma con disposizioni speciali, insuscettibili di applicazione diretta nelle procedure concorsuali. Infine, altre disposizioni dedicate a tale fenomeno erano contenute nel codice civile, come l’art.2394, comma III, c.c. per il quale nel caso di fallimento o di liquidazione coatta amministrativa della società, l’azione di responsabilità proponibile contro gli amministratori dai creditori sociali spettava al curatore o al commissario liquidatore, o agli artt. 2308 e 2448 c.c. che includevano la dichiarazione di fallimento e il provvedimento di liquidazione coatta amministrativa tra le cause di scioglimento delle società sia di persone che di capitali. La riforma del diritto societario del 2003 e quella immediatamente successiva delle procedure concorsuali intervenuta nel biennio 2005-2007, avrebbero potuto costituire l’occasione per porre le fondamenta di uno “statuto” sia pure basilare, ma completo, delle società di capitali in crisi. Eppure così non è stato. Il legislatore, in entrambi i casi, si è limitato a pochi e sporadici interventi anche se di indubbia importanza sistematica. Basti pensare, per fare degli esempi, all’art. 2499 c.c., riformato nel 2003 che consente la trasformazione da o in società anche in pendenza di una procedura concorsuale nei limiti in cui tale attività non sia incompatibile con le finalità o lo stato della stessa; o all’art. 2467 c.c. per il quale il soddisfacimento dei crediti dei soci derivanti dai finanziamenti da essi effettuati alla società in un momento in cui risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento risulta postergato rispetto al soddisfacimento dei crediti dei terzi e l’eventuale pagamento di quei crediti avvenuto nell’anno precedente alla dichiarazione di fallimento della società è revocato[13].
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